Ripubblichiamo questa interessante recensione de L’Onda, scritta da Roberto Escobar sulle colonne de Il Sole 24ore.
Sono ottimisti, gli autori di L’onda (Die Welle, Germania 2008, 101′). Lo sono per quanto il loro film racconti in maniera quasi crudele la nascita di un microsistema totalitario in un liceo tedesco. Lo chiama autocrazio, questo sistema, il film che il regista Dennis Gansel e il cosceneggiatore Peter Thorwarth hanno tratto (con qualche semplificazione didascalica) da un libro di Todd Strasser, a sua volta ispirato a un fatto accaduto realmente 40 e più anni fa. In ogni caso, abbandonato il termine colto, poi il linguaggio si fa esplicito: è fascismo, quello con cui un gruppo di studenti si consegnano entusiasmo se stessi.
Il fascismo, appunto, non sarebbe più possibile in Germania: così dicono gli allievi del prof Rainer Wenger all’inizio de L’Onda. Lo conosciamo, e ne conosciamo le conseguenze, spiegano sicuri. E’ questo ottimismo – questo primo ottimismo – che gli autori del film vogliono confutare. Li spinge a farlo la memoria di un passato che, peraltro, la cultura e la politica della Germania hanno sottoposto a critica dolorosa. E tuttavia, per dirla in latino, non solo dei Tedeschi ma anche di tutti noi in "fabula narratur". A provarlo basterebbe ricordare che l’onda di cui nel film si racconta non è nata in Europa bensì negli Stati Uniti.
Nel 1967, in un liceo di Palo Alto in California, il prof Ron Jones decise di spiegare ai suoi studenti che cosa fosse il totalitarismo utilizzandone su di loro gli strumenti: disciplina, spirito di corpo,
riti, simboli, canti. Il risultato fu un’esplosione di fanatismo e di violenza. Le ragioni del disastro, teorizzò poi il professore, vanno cercati nel fatto che "molti di quei ragazzi non avevano una comunità, una famiglia di riferimento, un senso di appartenenza". E’ utile aggiungere che qualche anno prima, nel 1963, lo psicologo sociale Stanley Milgram aveva pubblicato i risultati inquietanti di una ricerca sull’obbedienza da lui coordinata proprio all’Università di Palo Alto e proprio fra gli studenti (scelti con la preoccupazione che fossero "normali"). Più tardi, nel 1971, un altro psicologo sociale, Philip Zimbardo, condurrà una ricerca analoga in una prigione simulata presso l’Università di Stanford (e di nuovo con individui normali). I risultati sconvolgenti ossi si possono leggere in "L’Effetto Lucifero" (edito nel 2008 da Cortina).
Torniamo ora al film, e al prof Wenger. Come al suo collega californiano, anche lui spiega agli studenti che cosa sia il fascismo, e più in generale il totalitarismo, facendone loro vivere direttamente i metodi di manipolazione dei comportamenti e di costruzione identitaria.
Prima di tutto spiega all’inizio della "settimana a tema" dedicata all’autocrazia, per produrre un blocco sociale compatto tocca mettersi in uniforme, uniformando così anche la propria "Weltanschauung" (in Italia si parlerebbe di "idem sentire"). Poi, ognuno in camicia bianca, gli studenti sono indotti a irrigidire i corpi in rituali gelidi e insistiti: tutti si alzano allo stesso modo, con lo stesso ossequio dell’autorità (il prof Wenger). Il potere si raggiunge attraverso la disciplina – dice il nuovo fuhrer a soli fini didattici – ma anche attraverso l’obbedienza e "durch Gemeinshaft". Così scrive alla lavagna.
E però, invece dell’unica traduzione sensata – "attraverso la comunità" contrapposta alla società "Gesellshaft" – il doppiaggio preferisce un più neutro "attraverso l’unità". Ma non è un’unità generica, quella che Wenger intende, quanto una precisa, specifica comunità. Solo su di essa, spiega, è possibile fondare una identità che produca un agglomerato politico compatto, e fascista.
Che cosa manca ora? Bandiere, parole d’ordine, riti e simboli identitari, e soprattutto un nemico. Infatti ai suoi allievi Wenger si preoccupa di indicarne uno esplicito, vicino. Si tratta degli studenti
del piano di sotto. Sempre più chiusi in una "comunità di lotta" contro di loro i ragazzi rivolgono il fragore dei propri passi di marcia. A questo punto, in sala non resta che attendere l’esito finale, tragico. A esso sostengono più con i dialoghi che con le immagini Gansel e Thorwarth, quei ragazzi giungono perchè insicuri e sradicati. Ed è questo il loro ottimismo residuale. Se avessero letto Milgram e Zimbardo o se ricordassero la storia del loro (e del nostro) paese, saprebbero che il totalitarismo non è una patologia, una affezione che minaccia uomini e donne "malate". Al contrario sono gli uomini e le donne "normali" i candidati dell’"idem sentire", e alla violenza fanatica che
ne viene.
di Roberto Escobar – Sole 24 ore (domenica 8 marzo)
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